sabato 25 maggio 2013

Comunicato stampa venerdi 24 maggio 2013



Vogliamo unirci alla felicità di una nostra concittadina di Sinalunga che giovedi scorso ha ottenuto finalmente, dopo dieci anni di difficile iter burocratico, la cittadinanza italiana. Quella della cittadinanza è una questione su cui ultimamente si sente molto dibattere e la tentazione dell’ideologia, della risposta faziosa e scontata, è sempre in agguato, così come la tentazione dell’ipocrisia, o del buonismo, o del razzismo. A noi interessa ribadire un concetto, che l’Italia sia di chi la ama. Pensiamo che la patria non sia un dato che si acquisisce per mera discendenza, qualcosa che ci troviamo a ereditare e archiviamo, ma piuttosto una scelta che rinnoviamo ogni giorno, una scelta libera e appassionata. E sappiamo che quella della nostra concittadina lo è stata. Lo sappiamo per conoscenza diretta e perché abbiamo condiviso con lei un pezzo della nostra strada, che ci auguriamo continui e sia ricco di importanti sviluppi. Stigmatizziamo invece il comportamento dell'amministrazione comunale che purtroppo non ha fatto vivere pienamente questa importante scelta alla nostra concittadina, privandola di una cerimonia ufficiale che avrebbe consentito, se possibile, una ancor più piena consapevolezza e un maggior senso di patriottismo. Anche alla luce di una recentissima “Festa delle Culture”, che ha avuto luogo proprio a Sinalunga, ci chiediamo infine se la parola Patria sia usata, da parte di chi amministra il Comune, solo quando ci sia da ottenere un tornaconto in termini di consenso elettorale, lasciando poi la realtà delle varie situazioni al pressappochismo più completo.



Il Presidente
Gianni Massai


Il Piave mormorava

venerdi 24 maggio 2013

Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio;
l'esercito marciava per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera!
Muti passaron quella notte i fanti,
tacere bisognava e andare avanti.
S'udiva intanto dalle amate sponde
sommesso e lieve il tripudiar de l'onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
il Piave mormorò: "Non passa lo straniero!"
Ma in una notte triste si parlò di tradimento
e il Piave udiva l'ira e lo sgomento.
Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto,
per l'onta consumata a Caporetto.
Profughi ovunque dai lontani monti,
venivano a gremir tutti i ponti.
S'udiva allor dalle violate sponde
sommesso e triste il mormorio de l'onde.
Come un singhiozzo in quell'autunno nero
il Piave mormorò: "Ritorna lo straniero!"
E ritornò il nemico per l'orgoglio e per la fame
voleva sfogar tutte le sue brame,
vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora!
No, disse il Piave, no, dissero i fanti,
mai più il nemico faccia un passo avanti!
Si vide il Piave rigonfiar le sponde
e come i fanti combattevan l'onde.
Rosso del sangue del nemico altero,
il Piave comandò: "Indietro va', straniero!"
Indietreggiò il nemico fino a Trieste fino a Trento
e la Vittoria sciolse l'ali al vento!
Fu sacro il patto antico, tra le schiere furon visti
risorgere Oberdan, Sauro e Battisti!
Infranse alfin l'italico valore
le forche e l'armi dell'Impiccatore!
Sicure l'Alpi, libere le sponde,
e tacque il Piave, si placaron l'onde.
Sul patrio suol vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò né oppressi, né stranieri!

(Inno nazionale dal 1943 al 1946)


Era un lunedì. Alle 3:30, precedute dai tiri degli obici, le truppe italiane oltrepassarono il confine italo-austriaco, puntando verso le «terre irredente» del Trentino, del Friuli, della Venezia Giulia. Nel 1918, a guerra finita, un poeta e musicista napoletano, Giovanni Gaeta, più noto con lo pseudonimo di E. A. Mario, trasformò quel momento nella «Leggenda del Piave», una canzone destinata a entrare nella memoria collettiva degli italiani.


La leggenda del Piave, meglio conosciuta come la canzone del Piave, si ispira a fatti storici che risalgono al giugno 1918, quando l'Austria-Ungheria decise di sferrare un grande attacco sul fronte del Piave contro l'esercito italiano, già reduce dalla sconfitta di Caporetto, ma alla fine fu costretta a ripiegare. L'inno, composto proprio in quei  giorni, contribuì a ridare morale alle truppe italiane, al punto che il generale Armando Diaz inviò un telegramma all'autore, nel quale sosteneva che aveva giovato alla riscossa nazionale più di quanto avesse potuto fare lui stesso. La data del 24 maggio, riferita all’entrata in guerra dell’Italia, fu poi rievocata anche nel famoso bollettino del generale Armando Diaz subito dopo la vittoria, nel 1918: "La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta".


La canzone, scritta nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta, è stata persino adottata come inno nazionale italiano, dal 1943 al 1946, prima che venisse scelta la composizione di Mameli.



Il Presidente
Gianni Massai

martedì 21 maggio 2013

Integrazione degli stranieri. La terza via italiana

Prendendo come spunto la festa delle culture che ha avuto luogo a Sinalunga domenica 19 maggio approfitto per rendere chiara la nostra visione riguardo a questo argomento di cui molto si sta dibattendo a livello nazionale. Quando il primo ministro britannico, James Cameron, all’inizio di quest’anno ha scosso il mondo intero dichiarando il fallimento del multiculturalismo, in tutto l’Occidente si è riacceso più forte che mai il dibattito su quale sia la via migliore per l’integrazione. Se il multiculturalismo è fallito e l’assimilazionismo tradisce un forte retrogusto neocolonialista, si impone la ricerca di una terza via, che sia “altra” rispetto a entrambe. Una terza via che potrebbe essere tutta italiana.
Alla domanda su cosa debba fare un immigrato di seconda generazione, integrarsi o mantenere l’identità e le tradizioni del paese di provenienza, la risposta può quindi essere una sola: integrarsi mantenendo le proprie tradizioni. “Integrare” deve poter significare amare il luogo in cui si è nati o si è deciso di vivere senza dover per questo rinunciare alla propria cultura di origine. Senza recidere le proprie radici o rifugiarsi esclusivamente all’interno di queste.
Mi sembra un punto focale, ma invece di ragionare in astratto intorno al significato delle parole identità, tradizione e integrazione vorrei riprendere un SMS ricevuto il 17 marzo, giorno dell’anniversario dell’Unità d’Italia, da Giorgia Meloni, leader nazionale di Fratelli d’Italia, che dice: «Cara Giorgia, a prescindere dalle polemiche sulla festa della nostra amata Italia è stato meraviglioso e solenne ricordare la nostra storia e il tesoro di cui dobbiamo essere degni eredi. Ricordare poi quella breve ma intensa e appassionata lezione sui ragazzini del Risorgimento che ci hai donato ha completato il senso dell’italianità che ci accomuna. Un caro saluto, Lubna Ammoune». La sua passione, il rigore, la conoscenza vera, approfondita e sentita della questione mi fanno pensare all’immenso patrimonio di energie ed entusiasmo che può venirci da una nuova generazione di italiani come lei.
Questa è la “via italiana” all’integrazione: la via che valorizza e non cancella l’identità. E passa per una doppia appartenenza, per una sintesi autonoma ed eclettica. È una via che conosciamo bene, meglio di chiunque altro su questo pianeta, perché l’abbiamo già percorsa attraverso l’emigrazione italiana nel mondo. Un modello di attaccamento alla propria terra di origine più forte di qualunque cosa. Più forte persino di quello di chi non si è mai allontanato neppure un giorno dall’Italia. Eppure questo grande amore per le proprie radici, anche a distanza di secoli e generazioni, non ha impedito una integrazione talmente profonda e capillare da esprimere sindaci di New York, presidenti indiani, eroi di guerra, campioni sportivi e quant’altro. Si tratta forse di qualcosa che è presente nel nostro DNA fin da tempi antichissimi. Basti pensare a Roma e alla sua capacità di farsi condividere persino dai popoli conquistati con la violenza delle armi. Sarebbe quindi un controsenso storico non valorizzare oggi una via italiana alla giusta integrazione. Quando si parla di immigrazione, la tentazione dell’ideologia, della risposta faziosa e scontata, è sempre in agguato. Così come la tentazione dell’ipocrisia, o del buonismo, o del razzismo. Spesso l’immigrazione viene trattata dalla politica e dall’informazione solo in termini di emergenza e non di opportunità. E dietro la scelta di un vocabolo piuttosto di un altro c’è tutto un mondo di significati diversi. C’è una profonda differenza, ad esempio, tra “tolleranza” e “rispetto”. A me, infatti, non piace la parola “tolleranza” perché non devo “tollerare” alcunché, né devo essere tollerato. Preferisco parlare di una cultura del rispetto. La tolleranza è diventata sinonimo di rinuncia ai propri valori e alla propria essenza, senza nemmeno arrivare a conoscere davvero l’altro. Rispetto deriva invece dal latino respicere, cioè guardare in profondità, cogliere l’essenza dell’altro.
Che cosa può spingermi ad avvicinarmi all’altro, a volerlo conoscere? Certamente il rispetto, non la tolleranza che mi terrà sempre a distanza di sicurezza e mi farà diffidare di lui. Chi è sicuro della sua identità non ha alcun problema a dialogare con chicchessia. Nessuno può farci arretrare dalle nostre conquiste di civiltà e democrazia, mentre chiunque venga con lo stesso atteggiamento di rispetto può solo arricchirci. Questo è poi il motivo per cui ho così in odio il razzismo e i razzisti, per cui mi disgusta chi parla degli immigrati in termini dispregiativi. Solo le persone deboli possono infatti temere il confronto e il dialogo con chi ha un’altra nazionalità, un’altra cultura, un’altra religione, o con chi ha fatto scelte di vita diverse. Io non faccio passi indietro. Non sulla mia identità e sulla mia storia. Ecco perché non mi piace la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la quale esporre il crocifisso nelle classi è «contrario al diritto dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e con il diritto dei bambini alla libertà di religione». Credo sia una sentenza insensata e scandalosa, oltre che pericolosa. Il crocifisso è contrario a diritti e libertà? Nient’affatto. È il simbolo che per primo ci ha insegnato il rispetto degli altri, il loro valore e il valore della solidarietà, che ci ammonisce sui diritti inalienabili degli esseri umani, tutti, prima ancora che dei cittadini. Se c’è qualcuno che davvero si sente offeso dal simbolo del crocifisso e vuole obbligarmi a toglierlo, allora non dovrebbe scegliere di vivere qui. Perché questa è la nostra storia, veniamo da lì e se a qualcuno non piace non sono obbligato a fare un atto di abiura.
Mi piace riferirmi alla laicità positiva di cui parlarono Sarkozy e Benedetto XVI in un loro incontro di qualche tempo fa. Come loro auspico l’avvento di una laicità positiva che, pur vegliando sulla libertà di pensiero, non consideri le religioni un pericolo ma una ricchezza. Le religioni infatti rappresentano un ostacolo solo allo sviluppo di quella cultura nichilista che finisce per confondere i capricci con i diritti. Credo anzi che le religioni possano aiutare gli uomini a non smarrirsi nel presente o in se stessi. Mi ha sempre affascinato la vicinanza di quel detto ebraico che dice «Quando l’uomo pensa Dio sorride» con la celebre affermazione del filosofo islamico Averroé «Chi pensa è immortale, chi non pensa muore». Il pensiero è religione e viceversa.
Ma come viene vissuta questa corrispondenza dai giovani delle seconde generazioni? L’espressione più utilizzata per identificare la radice delle difficoltà o del rifiuto da cui si sentono talvolta attorniati i giovani stranieri intervistati per la ricerca sociale sull’immigrazione effettuata dal Ministero dell’Interno è “ignoranza”. Ignoranza di cosa sia l’Islam, delle differenze esistenti tra un marocchino, un algerino, un egiziano; del fatto che i giovani di seconda generazione, cresciuti in Italia, parlino benissimo l’italiano. Questi giovani attribuiscono ai mass media molta responsabilità «nella diffusione della diffidenza e del razzismo», perché raccontano l’immigrazione «evidenziando e dilatando gli episodi di devianza e di criminalità e trascurando tutto il resto. La realtà degli immigrati, la loro quotidianità, le trasformazioni, la loro cultura sono tutti aspetti che non trovano spazio nei media». Condivido molto quest’analisi.
Con Giorgia Meloni ministro della Gioventù ci siamo posti il problema “dell’ignoranza” in questa materia. Sono stati forniti ai punti Informagiovani materiale e guide per aiutare i ragazzi stranieri che si rivolgono a quegli sportelli: dalle informazioni sui permessi di soggiorno e le pratiche per la cittadinanza, fino ai corsi e alle opportunità di integrazione. Sono anche stati forniti una serie di schede-paese che possono servire a conoscere i paesi extraeuropei dai quali proviene la maggior parte degli immigrati.
Particolarmente interessante è anche la questione che riguarda più direttamente la scuola. È ovvio infatti che la scuola sia il luogo principe dell’integrazione. Ciò che emerge è una situazione in cui in generale la stragrande maggioranza dei ragazzi italiani e dei ragazzi di seconda generazione si considera “molto integrata” nella realtà sociale. La percentuale è un poco più bassa, ma non troppo, se si fa la stessa domanda ai ragazzi stranieri. C’è però un dato che considero interessante, e riguarda la consapevolezza della cittadinanza: né i ragazzi italiani né quelli di seconda generazione hanno in effetti idea di come funzioni la legge sulla cittadinanza. L’appartenenza alla stessa comunità scolastica e sociale è per loro elemento sufficiente, mentre il resto, ai loro occhi, sembra essere più che altro un problema burocratico.
Questo ci porta ad affrontare in concreto il nodo della cittadinanza. Al netto di tutte le teorie e di tutti i dibattiti che possiamo costruirci intorno, c’è un principio che mi sta a cuore e dal quale vorrei partire: “L’Italia a chi la ama”. Penso che la patria non sia un dato che si acquisisce per mera discendenza, qualcosa che ci troviamo a ereditare e archiviamo. La patria è una scelta che rinnoviamo ogni giorno, una scelta libera e appassionata. Dobbiamo considerare che oggi ci sono migliaia di ragazzi stranieri che sono nati e cresciuti in Italia e di fatto sono italiani come i loro coetanei. Il punto resta dunque quello di calare nell’ordinamento dello Stato l’affermazione di principio “l’Italia a chi la ama”. Una questione di cui ultimamente si dibatte molto e che personalmente ritengo si debba affrontare senza demagogie inutili né scorciatoie, ossia integrando lo ius sanguinis con lo ius soli. Il diritto alla cittadinanza per “linea di sangue” non è infatti una questione di razza o di etnia, rispecchia il concetto per cui chi è figlio di italiani è italiano, perché avrà ricevuto dalla sua famiglia una formazione culturale e civica che fa di lui un cittadino italiano. Ma, allo stesso modo, bisogna riconoscere che un giovane può essere forgiato come cittadino italiano anche in altri modi. E penso ovviamente al ruolo della scuola. Sono in generale contrario all’ipotesi di ridurre a zero o quasi i tempi per la cittadinanza o di renderla automatica dopo un certo periodo di permanenza, ma credo che un giovane, nato o no in Italia, se frequenta con profitto la scuola dell’obbligo, debba essere considerato alla stregua di un figlio di italiani. E che abbia diritto, quindi, alla cittadinanza italiana.
Dall’esame dell’attuale legge per l’acquisizione della cittadinanza appare chiaro che molto può essere migliorato per facilitare i ragazzi delle seconde generazioni. Favorendo, ad esempio, il riconoscimento formale del loro status sostanziale prima della maggiore età e rendendo più semplici le pratiche per la cittadinanza una volta maggiorenni. Non sarebbe nulla di più se non il giusto riconoscimento per quei ragazzi che sono italiani a tutti gli effetti.


Il Presidente
Gianni Massai

sabato 18 maggio 2013

Noi, i moderni servi della gleba

Giovedi 16 maggio 2013

I tecnocrati di Bruxelles e i loro maggiordomi nazionali, che impongono le politiche del rigore ai
cittadini europei dietro il ricatto del debito, dovrebbero ricordare che le grandi rivoluzioni, i conflitti sociali, le guerre, sono scoppiati per un problema di tasse: dalla fuga degli ebrei dall'Egitto al crollo della Spagna di Carlo V, dalle sanguinose repressioni contadine nella Germania del XVI secolo fino alla rivoluzione francese e a quella americana. E al grande Abramo Lincoln della schiavitù importava sicuramente, ma la vera causa della guerra civile americana fu la ribellione degli stati del Sud nei confronti di una pressione fiscale imposta dal Nord e sempre più insostenibile.
Oggi viviamo in un sistema in cui la pressione fiscale ha raggiunto livelli massimi. Per un liberale inglese di due secoli fa, o per un colono americano in lotta contro la corona britannica, un sistema fiscale come il nostro che prende la metà di ciò che un cittadino produce, sarebbe incomprensibile: ai loro occhi noi appariremmo come dei servi della gleba. Loro avevano la consapevolezza che le tasse non sono un debito, mentre noi moderni ci comportiamo come se lo fossero. L'idea che noi cittadini siamo debitori dello Stato è una delle più grandi manipolazioni culturali del nostro tempo.
L'economista liberale Milton Friedman ha spiegato che l'unico modo per diminuire le uscite di uno Stato è diminuire le sue entrate. In altre parole, per diminuire la spesa pubblica bisogna diminuire le tasse non aumentarle. Il motivo è facile intuirlo. La civiltà si misura dalla libertà (civile ed economica), non dalle tasse. È bene che i tecnocrati di Bruxelles se lo ricordino se non vogliono che l'Europa salti in aria come una polveriera.




Il Presidente
Gianni Massai