Prendendo come
spunto la festa delle culture che ha avuto luogo a Sinalunga domenica 19 maggio
approfitto per rendere chiara la nostra visione riguardo a questo argomento di
cui molto si sta dibattendo a livello nazionale. Quando il primo ministro
britannico, James Cameron, all’inizio di quest’anno ha scosso il mondo intero
dichiarando il fallimento del multiculturalismo, in tutto l’Occidente si è
riacceso più forte che mai il dibattito su quale sia la via migliore per
l’integrazione. Se il multiculturalismo è fallito e l’assimilazionismo tradisce
un forte retrogusto neocolonialista, si impone la ricerca di una terza via, che
sia “altra” rispetto a entrambe. Una terza via che potrebbe essere tutta
italiana.
Alla domanda su
cosa debba fare un immigrato di seconda generazione, integrarsi o mantenere
l’identità e le tradizioni del paese di provenienza, la risposta può quindi
essere una sola: integrarsi mantenendo le proprie tradizioni. “Integrare” deve
poter significare amare il luogo in cui si è nati o si è deciso di vivere senza
dover per questo rinunciare alla propria cultura di origine. Senza recidere le
proprie radici o rifugiarsi esclusivamente all’interno di queste.
Mi sembra un punto
focale, ma invece di ragionare in astratto intorno al significato delle parole
identità, tradizione e integrazione vorrei riprendere un SMS ricevuto il 17
marzo, giorno dell’anniversario dell’Unità d’Italia, da Giorgia Meloni, leader
nazionale di Fratelli d’Italia, che dice: «Cara Giorgia, a prescindere dalle
polemiche sulla festa della nostra amata Italia è stato meraviglioso e solenne
ricordare la nostra storia e il tesoro di cui dobbiamo essere degni eredi.
Ricordare poi quella breve ma intensa e appassionata lezione sui ragazzini del
Risorgimento che ci hai donato ha completato il senso dell’italianità che ci
accomuna. Un caro saluto, Lubna Ammoune». La sua passione, il rigore, la
conoscenza vera, approfondita e sentita della questione mi fanno pensare
all’immenso patrimonio di energie ed entusiasmo che può venirci da una nuova
generazione di italiani come lei.
Questa è la “via
italiana” all’integrazione: la via che valorizza e non cancella l’identità. E
passa per una doppia appartenenza, per una sintesi autonoma ed eclettica. È una
via che conosciamo bene, meglio di chiunque altro su questo pianeta, perché
l’abbiamo già percorsa attraverso l’emigrazione italiana nel mondo. Un modello
di attaccamento alla propria terra di origine più forte di qualunque cosa. Più
forte persino di quello di chi non si è mai allontanato neppure un giorno
dall’Italia. Eppure questo grande amore per le proprie radici, anche a distanza
di secoli e generazioni, non ha impedito una integrazione talmente profonda e
capillare da esprimere sindaci di New York, presidenti indiani, eroi di guerra,
campioni sportivi e quant’altro. Si tratta forse di qualcosa che è presente nel
nostro DNA fin da tempi antichissimi. Basti pensare a Roma e alla sua capacità
di farsi condividere persino dai popoli conquistati con la violenza delle armi.
Sarebbe quindi un controsenso storico non valorizzare oggi una via italiana
alla giusta integrazione. Quando si parla di immigrazione, la tentazione
dell’ideologia, della risposta faziosa e scontata, è sempre in agguato. Così
come la tentazione dell’ipocrisia, o del buonismo, o del razzismo. Spesso
l’immigrazione viene trattata dalla politica e dall’informazione solo in
termini di emergenza e non di opportunità. E dietro la scelta di un vocabolo
piuttosto di un altro c’è tutto un mondo di significati diversi. C’è una
profonda differenza, ad esempio, tra “tolleranza” e “rispetto”. A me, infatti,
non piace la parola “tolleranza” perché non devo “tollerare” alcunché, né devo
essere tollerato. Preferisco parlare di una cultura del rispetto. La tolleranza
è diventata sinonimo di rinuncia ai propri valori e alla propria essenza, senza
nemmeno arrivare a conoscere davvero l’altro. Rispetto deriva invece dal latino
respicere, cioè guardare in
profondità, cogliere l’essenza dell’altro.
Che cosa può
spingermi ad avvicinarmi all’altro, a volerlo conoscere? Certamente il
rispetto, non la tolleranza che mi terrà sempre a distanza di sicurezza e mi
farà diffidare di lui. Chi è sicuro della sua identità non ha alcun problema a
dialogare con chicchessia. Nessuno può farci arretrare dalle nostre conquiste
di civiltà e democrazia, mentre chiunque venga con lo stesso atteggiamento di
rispetto può solo arricchirci. Questo è poi il motivo per cui ho così in odio
il razzismo e i razzisti, per cui mi disgusta chi parla degli immigrati in
termini dispregiativi. Solo le persone deboli possono infatti temere il
confronto e il dialogo con chi ha un’altra nazionalità, un’altra cultura,
un’altra religione, o con chi ha fatto scelte di vita diverse. Io non faccio
passi indietro. Non sulla mia identità e sulla mia storia. Ecco perché non mi
piace la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la quale
esporre il crocifisso nelle classi è «contrario al diritto dei genitori di
educare i figli in linea con le loro convinzioni e con il diritto dei bambini
alla libertà di religione». Credo sia una sentenza insensata e scandalosa,
oltre che pericolosa. Il crocifisso è contrario a diritti e libertà?
Nient’affatto. È il simbolo che per primo ci ha insegnato il rispetto degli
altri, il loro valore e il valore della solidarietà, che ci ammonisce sui
diritti inalienabili degli esseri umani, tutti, prima ancora che dei cittadini.
Se c’è qualcuno che davvero si sente offeso dal simbolo del crocifisso e vuole
obbligarmi a toglierlo, allora non dovrebbe scegliere di vivere qui. Perché
questa è la nostra storia, veniamo da lì e se a qualcuno non piace non sono
obbligato a fare un atto di abiura.
Mi piace riferirmi
alla laicità positiva di cui parlarono Sarkozy e Benedetto XVI in un loro
incontro di qualche tempo fa. Come loro auspico l’avvento di una laicità
positiva che, pur vegliando sulla libertà di pensiero, non consideri le
religioni un pericolo ma una ricchezza. Le religioni infatti rappresentano un
ostacolo solo allo sviluppo di quella cultura nichilista che finisce per
confondere i capricci con i diritti. Credo anzi che le religioni possano
aiutare gli uomini a non smarrirsi nel presente o in se stessi. Mi ha sempre
affascinato la vicinanza di quel detto ebraico che dice «Quando l’uomo pensa
Dio sorride» con la celebre affermazione del filosofo islamico Averroé «Chi
pensa è immortale, chi non pensa muore». Il pensiero è religione e viceversa.
Ma come viene
vissuta questa corrispondenza dai giovani delle seconde generazioni?
L’espressione più utilizzata per identificare la radice delle difficoltà o del
rifiuto da cui si sentono talvolta attorniati i giovani stranieri intervistati
per la ricerca sociale sull’immigrazione effettuata dal Ministero dell’Interno
è “ignoranza”. Ignoranza di cosa sia l’Islam, delle differenze esistenti tra un
marocchino, un algerino, un egiziano; del fatto che i giovani di seconda
generazione, cresciuti in Italia, parlino benissimo l’italiano. Questi giovani
attribuiscono ai mass media molta responsabilità «nella diffusione della diffidenza
e del razzismo», perché raccontano l’immigrazione «evidenziando e dilatando gli
episodi di devianza e di criminalità e trascurando tutto il resto. La realtà
degli immigrati, la loro quotidianità, le trasformazioni, la loro cultura sono
tutti aspetti che non trovano spazio nei media». Condivido molto quest’analisi.
Con Giorgia Meloni
ministro della Gioventù ci siamo posti il problema “dell’ignoranza” in questa
materia. Sono stati forniti ai punti Informagiovani materiale e guide per
aiutare i ragazzi stranieri che si rivolgono a quegli sportelli: dalle
informazioni sui permessi di soggiorno e le pratiche per la cittadinanza, fino
ai corsi e alle opportunità di integrazione. Sono anche stati forniti una serie
di schede-paese che possono servire a conoscere i paesi extraeuropei dai quali
proviene la maggior parte degli immigrati.
Particolarmente
interessante è anche la questione che riguarda più direttamente la scuola. È
ovvio infatti che la scuola sia il luogo principe dell’integrazione. Ciò che
emerge è una situazione in cui in generale la stragrande maggioranza dei
ragazzi italiani e dei ragazzi di seconda generazione si considera “molto
integrata” nella realtà sociale. La percentuale è un poco più bassa, ma non
troppo, se si fa la stessa domanda ai ragazzi stranieri. C’è però un dato che
considero interessante, e riguarda la consapevolezza della cittadinanza: né i
ragazzi italiani né quelli di seconda generazione hanno in effetti idea di come
funzioni la legge sulla cittadinanza. L’appartenenza alla stessa comunità
scolastica e sociale è per loro elemento sufficiente, mentre il resto, ai loro
occhi, sembra essere più che altro un problema burocratico.
Questo ci porta ad
affrontare in concreto il nodo della cittadinanza. Al netto di tutte le teorie
e di tutti i dibattiti che possiamo costruirci intorno, c’è un principio che mi
sta a cuore e dal quale vorrei partire: “L’Italia a chi la ama”. Penso che la
patria non sia un dato che si acquisisce per mera discendenza, qualcosa che ci
troviamo a ereditare e archiviamo. La patria è una scelta che rinnoviamo ogni
giorno, una scelta libera e appassionata. Dobbiamo considerare che oggi ci sono
migliaia di ragazzi stranieri che sono nati e cresciuti in Italia e di fatto
sono italiani come i loro coetanei. Il punto resta dunque quello di calare
nell’ordinamento dello Stato l’affermazione di principio “l’Italia a chi la
ama”. Una questione di cui ultimamente si dibatte molto e che personalmente
ritengo si debba affrontare senza demagogie inutili né scorciatoie, ossia integrando
lo ius sanguinis con lo ius soli. Il diritto alla cittadinanza
per “linea di sangue” non è infatti una questione di razza o di etnia,
rispecchia il concetto per cui chi è figlio di italiani è italiano, perché avrà
ricevuto dalla sua famiglia una formazione culturale e civica che fa di lui un
cittadino italiano. Ma, allo stesso modo, bisogna riconoscere che un giovane
può essere forgiato come cittadino italiano anche in altri modi. E penso
ovviamente al ruolo della scuola. Sono in generale contrario all’ipotesi di
ridurre a zero o quasi i tempi per la cittadinanza o di renderla automatica
dopo un certo periodo di permanenza, ma credo che un giovane, nato o no in
Italia, se frequenta con profitto la scuola dell’obbligo, debba essere
considerato alla stregua di un figlio di italiani. E che abbia diritto, quindi,
alla cittadinanza italiana.
Dall’esame
dell’attuale legge per l’acquisizione della cittadinanza appare chiaro che
molto può essere migliorato per facilitare i ragazzi delle seconde generazioni.
Favorendo, ad esempio, il riconoscimento formale del loro status sostanziale
prima della maggiore età e rendendo più semplici le pratiche per la
cittadinanza una volta maggiorenni. Non sarebbe nulla di più se non il giusto
riconoscimento per quei ragazzi che sono italiani a tutti gli effetti.
Il Presidente
Gianni Massai